Carrello tricolore? Da prendere con molle. Cibo accessibile nostro dovere

Milano, 16 nov. (askanews) – Sulla sostenibilità, nonostante la congiuntura economica, “non penso che l’Italia possa tornare indietro: l’orgoglio di fare un mestiere obbliga all’evoluzione del mestiere stesso. Ci possono essere momenti storici in cui si rallenta un po’ ma la macchina è messa in moto in una certa direzione”. A parlare è Paolo Barilla, vicepresidente dell’omonima azienda alimentare e da giugno presidente di Unione italiana food, associazione che riunisce 550 aziende di 20 comparti dell’alimentare con un fatturato aggregato di 51 miliardi. Lo fa in questa intervista ad askanews, in occasione della pubblicazione del terzo bilancio di sostenibilità aggregato realizzato dall’associazione, dal quale emerge che nel 2022 quasi nove aziende alimentari su dieci hanno investito per riformulare le proprie ricette e garantire diete più sane, quasi la totalità si è impegnata in almeno un progetto di tutela o conservazione degli habitat naturali, mentre il 77% ha ottenuto una certificazione di agricoltura sostenibile.

Nonostante il difficile contesto economico e geopolitico, “Non ci sono elementi che ci dicono che si è rallentato” negli investimenti in sostenibilità. “Eventualmente c’è più selezione nell’approvare progetti di innovazione già all’interno della stessa azienda, è lo stesso mercato che diventa più selettivo. Qualitativamente penso che si possa uscire addirittura più rinforzati da questo periodo – ci ha detto – il colpo certamente è stato molto pesante nel breve periodo ed è tuttora molto pesante perché l’aumento dell’inflazione che noi abbiamo recepito in primis e poi siamo costretti a ribaltare sui consumi è molto forte ma è un inciampo di percorso”. Certo, ammette Barilla, “non tutta l’industria è lì ma il percorso è segnato: ci sono aziende molto virtuose e altre meno che stanno a guardare per prendere ispirazione. Unionfood si occupa molto di questi aspetti delle relazioni tra le imprese perché ci sono modelli che fanno proselitismo”.

Del resto, essere un’industria sostenibile, spiega il numero uno di Unione italiana food, “coincide col fatto che facciamo il cibo più buono del mondo, che non è solo la dimensione del cibo che tutti apprezziamo, quello che ci piace ma è che sia un cibo fatto molto bene. Tutti questi elementi devono continuamente rinforzarsi ed evolversi per essere orgogliosi di quello che facciamo e di poterlo proporre al mondo come un cibo fatto in modo differente, in modo che le persone possano apprezzare e sentirsi sicure”. “Questo – ha aggiunto – è un valore che viene riconosciuto di per sé alla tradizione italiana ed è importante metterlo a sistema. Esistono tanti elementi razionali dietro la percezione più emotiva del cibo ed è fondamentale sia per l’industria italiana che per il Paese vendere qualcosa che ha un valore qualitativo inimitabile altrimenti siamo perdenti”.

Ma essere sostenibili per l’industria alimentare significa anche produrre cibo buono accessibile a tutti, soprattutto in contesti come quello attuale con un’inflazione che mette a rischio i bilanci delle famiglie. “Per le nostre aziende il fatto di produrre cibo sicuro e buono per tutti è un dovere oltre che un mestiere che ha dietro un forte senso di responsabilità molto diffuso. Ma dobbiamo tenere presente che l’Italia è uno dei Paesi più democratici in tal senso perchè il cibo è in mano a piccole comunità, a piccoli, medi e grandi produttori per cui c’è un’offerta molto variegata, con tutti i tipi di prezzo: in Italia a garantire la democraticità del cibo ci pensa la competitività del settore”. Ecco perché ritiene che l’iniziativa del carrello anti-inflazione sia “da prendere con le molle, perchè noi capiamo l’importanza di questo tema ma non da oggi, lo sapevamo tre come 20 e 50 anni fa per cui niente di nuovo sotto il sole. Quello è il nostro mestiere che comunque, a prescindere dal periodo di crisi, ha sempre quella tensione competitiva che ci tiene ben radicati”.

E in uno scenario economico complesso, dove dopo lo choc del Covid le crisi geopolitiche degli ultimi due anni hanno messo in discussione la tenuta di alcune filiere, alcune posizioni, come quella produrre internamente molte materie prime accorciando le catene di approvvigionamento, non devono diventare dogmi. “Il dogma che tutto debba essere fatto in casa e debba essere migliore per definizione non è vero – ci ha detto – quello che riesci a fare sì ma quello che non riesci a fare devi essere aperto a prenderlo dal resto del mondo. Del resto il commercio è sempre stato misto. Anche perché ci sono grandi mercati a cui non puoi rinunciare, ci sono delle origini di prodotti che sono talmente importanti che uno non può improvvisare”. “Se poi c’è un certo tipo di industria, si riesce a fare una filiera interna da cui si trae grande valore e si riesce a mettere tutte le parti intorno a un tavolo tanto meglio. Ma quando non si riesce a farlo è inutile mettere dei vincoli che possono essere molto molto pesanti – ha concluso – a guidare deve essere una visione del Paese un po’ più allargata e non solo di una parte”.

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