Con Morawiecki al posto di Meloni alla guida del Partito

Roma, 18 gen. (askanews) – Se finora era stata soprattutto Giorgia Meloni a rappresentare, con un certo successo, la nuova linea della destra moderata, e moderatamente europeista, dell’Ecr, con il cambio alla guida del partito europeo dei Conservatori e l’elezione dell’ex premier polacco Mateusz Moraviecki al posto della stessa Meloni alla sua presidenza le cose cambiano: c’è un evidente spostamento della linea politica dell’Ecr verso la destra estremista anti-europea.

Subito dopo la sua elezione, Morawiecki si è espresso in modo chiarissimo contro l’idea di rimuovere il diritto di veto che oggi blocca spesso le decisioni di politica estera europea, rendendo l’Ue incapace di prendere posizione e di agire sulla scena internazionale, e rendendo difficile, quando non impossibile, realizzare quella ‘autonomia geostrategica’ europea che pure era finora promossa e auspicata dallo stesso Ecr, o almeno dalla sua componente italiana, Fdi, e da Giorgia Meloni. Non solo: l’ex premier polacco ha sparato a zero contro la Commissione europea di Ursula von der Leyen, con cui Meloni rivendica, non a torto, di aver costruito un rapporto privilegiato (anche approfittando del vuoto lasciato in questi ultimi tempi dall’estrema debolezza dell’asse franco-tedesco, a causa dei problemi politici interni dei due paesi).

Per Morawiecki, la Commissione ha semplicemente ‘usurpato’ i poteri degli Stati nazionali. Addirittura, ha aggiunto, è proprio questa, e non il diritto di veto degli Stati membri, la ragione della debolezza dell’Europa sulla scena mondiale: ‘Non saremo rilevanti se non elimineremo la burocrazia e la centralizzazione del potere a Bruxelles da parte della Commissione europea. Questo è il principale ostacolo affinché l’Europa torni a essere grande’. Una dichiarazione, pronunciata in inglese, (‘for Europe to be great again’)’, che parafrasa non casualmente l’America ‘great again’ di Donald Trump.

Innanzitutto, nel passaggio da Meloni a Morawiecki c’è un cambiamento di prospettiva notevole, a causa della situazione nazionale retrostante. Il nuovo presidente polacco dell’Ecr è espressione del Partito del diritto e della libertà (Pis), che in Polonia sta conducendo una battaglia durissima contro l’attuale premier del Ppe, Donald Tusk, ex presidente del Consiglio europeo, che ha sconfitto l’estrema destra alle ultime elezioni. Il Pis, dopo anni di potere incontrastato e di contrapposizione a Bruxelles da posizioni molto simili a quelle dell’Ungheria di Viktor Orban (salvo che nella posizione riguardo alla Russia), ha dovuto cedere la guida del governo a Tusk. Per Morawiecki, il Ppe è innanzitutto il nemico in casa, che spera di sconfiggere alla prima occasione. Per Meloni, il Ppe a livello nazionale è rappresentato da Forza Italia, il fedele alleato di governo, con cui va d’amore e d’accordo, anche per controbilanciare le pretese dell’altro alleato, la Lega, sempre più radicalizzato a destra e su posizioni anti europee.

Questa situazione negli equilibri di potere nazionali è uno dei fattori più importanti della ‘moderazione’ e del pragmatismo mostrati da Meloni e dal suo Fdi sulle questioni europee, dove qualunque accento ideologicamente e radicalmente contrario all’Ue comporterebbe inevitabilmente uno scontro interno con Forza Italia, e imbarazzerebbe quest’ultima di fronte agli europei nel Ppe.

Ma c’è anche un altro elemento, non meno importante, che finora aveva stupito non pochi osservatori internazionali, di sincera evoluzione su posizioni più europeiste da parte di Fdi, riguardo al ruolo dell’Europa nel mondo. E’ l’applicazione logica e conseguente del principio di sussidiarietà, spesso evocato da Meloni e dai politici di Fdi, secondo cui gli Stati devono occuparsi delle questioni nazionali più vicine al loro livello di potere, mentre l’Ue dovrebbe avere tutto il margine necessario per agire laddove le ‘nazioni’ non possono farlo adeguatamente: in politica estera, nella sicurezza e difesa comune, nel commercio estero, nella cosiddetta ‘autonomia geostrategica’, che significa il controllo degli approvvigionamenti delle materie prime e delle catene del valore, e in sostanza in una vera e propria politica industriale europea che rafforzi la competitività delle imprese e ne riduca le dipendenze dai paesi terzi ‘non sicuri’, e che freni la ‘desertificazione industriale’ in atto in diversi comparti. Meloni e Fdi, ci era sembrato di capire, non vogliono che l’Europa, gigante economico come mercato, resti un nano politico a livello mondiale; anche perché in questo modo finisce, e sta finendo, per perdere rapidamente posizioni anche sul piano economico e di mercato.

Forse avevamo capito male. Forse il nuovo ‘europeismo moderato’ di Fdi e di Giorgia Meloni era pura tattica, e non una nuova strategia politica. Questo sembra dire, in modo abbastanza chiaro, il ‘manifesto’ politico di Morawiecki, esposto alla stampa subito dopo la sua elezione alla presidenza dell’Ecr, martedì 14 gennaio; e lo hanno confermato anche i due politici più importanti di Fdi al Parlamento europeo, Carlo Fidanza, capodelegazione degli eurodeputati italiani (eletto anche vicepresidente del Partito europeo), e Nicola Procaccini, co-presidente del gruppo.

‘Non c’è differenza tra noi riguardo al diritto di veto in politica estera’, ha puntualizzato Fidanza durante la conferenza stampa di Morawiecki. Quindi se si presume questo – ha ribadito -, ‘non c’è differenza. Noi siamo d’accordo su questo punto’. Analoga, anche se più elaborata, è stata la risposta di Procaccini. ‘Come si fa – gli abbiamo chiesto – ad avere l’autonomia geostrategica e la potenza geopolitica dell’Europa se si mantiene il diritto di veto nella politica estera? Abbiamo visto che l’Europa rimane un nano politico quando c’è l’Ungheria che si oppone, per esempio, alle decisioni riguardanti le sanzioni contro la Russia’. ‘Per quanto riguarda il discorso del diritto di veto – ha risposto Procaccini -, intanto mi piacerebbe fare un riferimento storico su quante volte è stato posto il diritto di veto; o meglio, quante volte non si sia superato il diritto di veto. Non mi risulta che sia mai accaduto; mi risulta naturalmente che il fatto che una nazione possa porre il proprio veto su una decisione comune abbia favorito una discussione, certamente più lunga di quella che probabilmente ci sarebbe stata senza il veto. C’è stata una maggiore trattativa per arrivare a un compromesso certamente più difficile, più complicato, ma si è sempre raggiunto un compromesso’. ‘Ora – ha affermato il co-presidente del gruppo Ecr al Parlamento europeo, con una sua personale interpretazione della storia dell’integrazione comunitaria -, qui ci sono due modelli: uno è il modello originale dell’Unione europea, che è un modello confederale; e nel modello confederale il diritto di veto è garantito a tutti gli stati nazionali. Dall’altra parte, c’è un modello federalista, rispettabile, legittimo, che chiaramente non prevede il diritto di veto. Ma lasciatemi ribadire una volta ancora che non è il modello originale dell’Unione europea. L’Unione europea nasce come sistema confederale, e noi sosteniamo l’idea originale di Unione europea’.

Non è chiaro a quali fonti storiche si riferisca Procaccini, per affermare che il ‘modello originale’ dell’integrazione europea sia quello confederale e non quello federalista. Com’è noto, alle origini dell’integrazione europea, dopo la seconda guerra mondiale, i due ‘modelli’ che si confrontarono furono quello federalista e quello funzionalista. Quest’ultimo ebbe la meglio, soprattutto dopo la bocciatura da parte del Parlamento francese della ratifica del Trattato (di carattere federale) sulla Comunità europea di difesa (Ced), nell’agosto del 1954. Ma i ‘funzionalisti’ come Jean Monnet e Robert Schuman (a cui si deve la fondazione della Ceca, la prima Comunità europea, quella del carbone e dell’acciaio) non erano contrari all’Europa federale: semplicemente, consideravano che era un traguardo finale, da raggiungere cominciando con la messa in comune ‘funzionale’ delle risorse economiche.

Sapevamo che uno degli obiettivi politici più importanti di tutta la destra europea, e anche di una buona parte del Ppe (che il suo presidente, Manfred Weber, definisce ora chiaramente di centro-destra e non più di centro come è stato per decenni), è quello di fare marcia indietro su almeno alcuni obiettivi importanti del Green Deal, il piano strategico di trasformazione e crescita economica che era stato il programma principale e più caratterizzante della prima Commissione von der Leyen, cinque anni fa. Ma qui sembra che la retromarcia perorata dall’Ecr (compresa, a questo punto, la sua componente italiana) riguardi molto di più: i Conservatori di Morawiecki chiedono di tornare indietro niente meno che sullo stesso processo d’integrazione europea, con una rinazionalizzazione delle competenze e dei poteri ‘usurpati’ dall’Ue, e in particolare dall’odiata Commissione. E per fare questo, chiamano il Ppe ad allearsi con loro e con l’estrema destra nel Parlamento europeo.

‘Se c’è un’opzione per costruire una coalizione con il Ppe e con i Patrioti per l’Europa (il gruppo di estrema destra, ndr) su alcune cose importanti per noi, possiamo farlo’, ha sottolineato Morawiecki. ‘Oggi l’Ecr è al centro’ nello scacchiere politico europeo. ‘Alla nostra destra ci sono i ‘Patrioti’ e altri (i Sovranisti dell’Esn, ndr); alla nostra sinistra c’è il Ppe’. Insomma, ha concluso il presidente dell’Ecr, ‘il Ppe è ora a sinistra del centro. Questo è fattuale. Ma noi possiamo collaborare con tutti per il bene dell’Europa e per il bene degli stati membri dell’Europa’.

Di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

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