Presidenzializzazione è mancanza di spessore politico
Roma, 27 dic. (askanews) – Ce l’ha fatta, è stata rieletta presidente delle Commissione per altri cinque anni, e ha avuto anche la fiducia del Parlamento europeo per tutti i suoi commissari, nonostante qualche mal di pancia e diversi rospi ingoiati da parte del centro sinistra (Liberali, Socialisti e Democratici, Verdi). Ma il percorso di Ursula von der Leyen verso il secondo mandato è stato tutt’altro che glorioso: non leadership, ma opportunismo politico, non visione europea ma attaccamento al potere, a qualunque costo. Anche quello di rinnegare sé stessa, per come era stata nel suo primo mandato, fino ad accettare ora la prospettiva di fare retromarcia, di smontare una parte della legislazione già adottata del suo Green Deal. E di lasciarsi dettare dai governi di destra e di centrodestra, ormai largamente maggioritari nel Consiglio, la linea su una gestione sempre più da “Fortezza Europa” dell’immigrazione irregolare e dell’asilo; un’area che, andrebbe ricordato e sottolineato, secondo i Trattati Ue è di competenza delle politiche comunitarie, non nazionali.
Perché la priorità oggi è un’altra: non quella di attuare un programma politico da lei proposto e sottoscritto poi dalla coalizione (in realtà inesistente) dei partiti europei che l’hanno eletta, ma di agire come mera esecutrice del programma e delle nuove politiche del Ppe, sempre più impegnato a rincorrere la destra, per non rischiare di perdere voti.
Sulle politiche migratorie, oltretutto, von der Leyen rischia di mettere la Commissione in rotta di collisione con la Corte europea di Giustizia e con l’altra Corte europea, quella dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, che potrebbero denunciare e bocciare come contrarie al diritto Ue e al diritto e alle convenzioni internazionali certe proposte annunciate sulla deportazione dei migranti irregolari o sulla criminalizzazione di chiunque li aiuti, invece che dei soli trafficanti.
Per chi aveva creduto in lei e nel suo Green Deal, come “nuova strategia di crescita” e cambiamento di paradigma per l’Europa, von der Leyen si è rivelata una grande delusione. Invece di rivendicare i successi di un programma di trasformazione economica che non aveva precedenti europei se non nel mercato unico del suo grande predecessore Jacques Delors, Ursula l’opportunista ha sostanzialmente avallato, con il suo silenzio, la tesi del Ppe e delle destre, secondo cui in realtà il “Patto verde” era un progetto del socialista olandese Frans Timmermans, il suo ex vicepresidente esecutivo. E tutti suoi, di Timmermans, sono quindi gli “eccessi ideologici” e gli obiettivi irrealistici delle “politiche green”, colpa sua sono le fughe in avanti, l’eccesso di regolamentazione imposto all’industria a scapito della sua competitività.
Ecco così redento, scaricandolo su Timmermans, quello che poteva esser visto nel Ppe e tra i Conservatori (compreso Fdi) come un peccato originale di von der Leyen. Che ora è pronta a guidare la reazione conservatrice contro ciò che la sua stessa Commissione aveva voluto e realizzato nella scorsa legislatura, sotto la maligna influenza del suo vicepresidente esecutivo socialista. Von der Leyen, che avrebbe potuto essere ricordata come uno dei pochi grandi presidenti della Commissione, diminuisce sé stessa, rinuncia a un posto importante nella storia europea, perché sa che sarebbe incompatibile con il suo ruolo attuale, con la conservazione del suo potere.
Che poi in realtà è soprattutto il potere del suo team di consiglieri, di cui si fida ciecamente. Questo “inner circle”, guidato dal suo capo di gabinetto Bjoern Seibert, informa e indirizza ogni azione di von der Leyen, lasciandole il ruolo di brava e convincente attrice che recita sul palcoscenico una parte scritta da altri, dietro le quinte. Seibert ha centralizzato il controllo e verticalizzato il potere dentro la Commissione in modo sistematico, con un’idea tutta tedesca di dominazione assoluta: niente gli sfugge, nessuna iniziativa può essere presa, nessuna promozione è possibile senza il suo via libera. Anche la distribuzione di portafogli ai commissari risponde a questa logica, con l’attuazione del principio “divide et impera”: le competenze più importanti non sono mai in mano a una sola persona, ma frammentate, in modo che alla fine, in caso di controversia, prevalga la presidenza, cioé von der Leyen, cioè Seibert.
E in tutto questo viene a mancare sempre di più la vera forza della “funzione pubblica europea”: la motivazione integrazionista che aveva caratterizzato la Commissione in passato; oggi è diventata in gran parte un’amministrazione pubblica come qualunque altra, soggetta a un management di tipo anglosassone (nonostante la Brexit) in cui quello che conta sono le performance, l’abilità e le carriere personali dei funzionari, non gli obiettivi europei. “Nella Commissione, ormai di Europa non parla più nessuno”, ci diceva recentemente una funzionaria delusa.
Paradossalmente, insomma, la “presidenzializzazione” perseguita dalla Commissione von der Leyen comporta una mancanza di spessore politico reale da parte della presidente, a cui corrisponde un potere oscuro ma pesantissimo dietro di lei. Con l’inizio del nuovo mandato, si preannuncia una Commissione intergovernativa invece che comunitaria, al servizio degli Stati membri, di alcune lobby economiche e di una determinata parte politica (il Ppe) invece che dell’interesse comune europeo. Una Commissione che rincorre invece di guidare, che rischia di far tornare indietro il disegno europeo.
Per tutto questo, la pagella di Ursula von der Leyen è ben al di sotto della sufficienza, anche se si può ancora sperare che non si realizzino tutte le premesse negative. Voto: 4.
di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese