Ha invocato “cultura della pace”, unità e partecipazione
Roma, 31 dic. (askanews) – Nel suo nono discorso di fine anno Sergio Mattarella invoca una “cultura della pace” che va costruita e alimentata nella società e che riguarda innanzitutto i tanti teatri di guerra che si stanno ampliando nel mondo ma anche la violenza diffusa all’interno delle comunità. “La guerra – sottolinea – non nasce da sola. Nasce da quel che c’è nell’animo degli uomini. Dalla mentalità che si coltiva. Dagli atteggiamenti di violenza, di sopraffazione, che si manifestano. È indispensabile fare spazio alla cultura della pace. Alla mentalità di pace”.
Secondo il capo dello Stato parlare di pace però “non è astratto buonismo. Al contrario, è il più urgente e concreto esercizio di realismo” e soprattutto “volere la pace non è neutralità; o, peggio, indifferenza, rispetto a ciò che accade: sarebbe ingiusto, e anche piuttosto spregevole. Perseguire la pace vuol dire respingere la logica di una competizione permanente tra gli Stati”. Mattarella ricorda quanto accade in Ucraina, da più di un anno e in Medio Oriente già da diversi mesi e mette in guardia dal “rischio concreto di abituarsi a questo orrore. Alle morti di civili, donne, bambini”.
Il ragionamento si sposta quindi alla comunità, da cui tutto parte perchè “coltivare la pace significa educare, coltivarne la cultura nel sentimento delle nuove generazioni. Nei gesti della vita di ogni giorno. Nel linguaggio che si adopera. Dipende, anche, da ciascuno di noi” perchè “vediamo, e incontriamo, la violenza anche nella vita quotidiana. Anche nel nostro Paese. Quando prevale la ricerca, il culto della conflittualità” al posto del dialogo.
Nel toccare il triste tema della violenza sulle donne Mattarella sceglie di rivolgersi direttamente ai più giovani, per spiegare loro che “l’amore non è egoismo, possesso, dominio, malinteso orgoglio. L’amore – quello vero – è ben più che rispetto: è dono, gratuità, sensibilità”. Proprio i giovani che nelle situazioni di disagio, di emarginazione, esprimono la loro rabbia, dice, anche attraverso la violenza.
Nel discorso di fine anno il presidente della Repubblica non manca di ribadire quali sono le emergenze da affrontare: il lavoro che manca, che è sottopagato e che manca di sicurezza, le disuguaglianze che aumentano, (vedi manager pagati ben più di dieci volte rispetto a una paga operaia, secondo i principi di una certa imprenditoria illuminata del passato), i problemi della sanità con liste d’attesa inaccettabili, i costi degli alloggi per gli studenti che compromettono il diritto allo studio. I giovani ancora al centro delle preoccupazioni del capo dello stato, quei giovani “disorientati” in “un mondo che disconosce le loro attese”. Mentre è proprio dei giovani, delle loro speranze e della loro capacità di leggere le novità che la società ha più bisogno.
La via per districarsi in questo complesso “passaggio epocale” è “dare tutti qualcosa alla nostra Italia” e “la partecipazione attiva alla vita civile. A partire dall’esercizio del diritto di voto – dice Mattarella -. Perchè è il voto libero che decide. Non rispondere a un sondaggio, o stare sui social. Perché la democrazia è fatta di esercizio di libertà”. Una libertà che deve essere “indipendente da abusivi controlli di chi, gestori di intelligenza artificiale o di potere, possa pretendere di orientare il pubblico sentimento”. Il suo è un messaggio di fiducia: “Non dobbiamo farci vincere dalla rassegnazione. O dall’indifferenza. Non dobbiamo chiuderci in noi stessi per timore che le impetuose novità che abbiamo davanti portino soltanto pericoli”. La chiave è quindi ritrovare nel nostro stare insieme e nei valori su cui si fonda la nostra democrazia le ragioni per andare avanti: “Contribuire alla vita e al progresso della Repubblica, della Patria, non può che suscitare orgoglio negli italiani. Ascoltare, quindi; partecipare; cercare, con determinazione e pazienza, quel che unisce – è l’auspicio di Mattarella -. Perché la forza della Repubblica è la sua unità. L’unità non come risultato di un potere che si impone”. L’unità che ci rende forti.