La storia di un aborto terapeutico ambientata in una Roma dolente
Roma, 9 dic. (askanews) – C’è la storia intima, privata – che si dipana tra dolore, dubbi e rabbia e nella quale il lettore, come fosse uno di famiglia, viene fatto entrare fin dalla prima pagina del libro – e c’è la storia collettiva, quella di un paese del G7 dove ancora oggi accedere alle prestazioni sanitarie per un aborto – terapeutico, nel caso del libro – è un percorso burocraticamente tortuoso e a tratti disumano. Ma “Il Consolo” (Fandango Libri) di Orsola Severini, scrittrice e insegnante di francese, non è solo questo: è un romanzo, ambientato in una Roma contemporanea e dolente, nell’accezione più ampia del termine perché tiene insieme e racconta più di una storia e più di un aspetto nei quali è difficile non riconoscersi.
Nella vicenda della protagonista, nelle sue relazioni familiari e sociali, viene colto e analizzato il momento della crisi, della caduta, della rottura del normale fluire delle cose. Succede a tutti. Nel caso di Orsola è lì – davanti al referto della villocentesi – che le certezze vengono messe in discussione e traballano tutti i rapporti, anche i più solidi, perfino quello con se stessa. Orsola, infatti, nonostante una ferrea educazione femminista e comunista, trova la sua realizzazione maggiore nell’essere madre di due bambini tanto da desiderarne un terzo ma si trova – da sola, nonostante il supporto del marito e della madre – davanti a una scelta dolorosa e a tutto ciò che ne consegue.
Le accade quello che a lei, pensava, non sarebbe mai capitato. Così il tempo di un fine settimana in attesa dell’intervento si dilata, le emozioni cominciano a pulsare sotto la corazza di donna controllata e razionale e lei non può fare altro che annotare tutto, andare indietro nel tempo, riesumare ricordi di bambina, invocare, in qualche modo, il conforto, provato nella terra natìa del padre – figura centrale del libro -, grazie all’antica, magica, tradizione del “consolo”: l’offerta di cibo alla famiglia del defunto.
Non manca un racconto puntuale del sistema sanitario pubblico che, tuttavia non si perde nella denuncia giornalistica, perché il libro mantiene sempre il tono, il registro e l’andamento del romanzo. Così, anche davanti ai momenti più difficili vissuti dalla protagonista nell’accedere a un aborto terapeutico, la voglia di raccontare a tutto tondo, senza ignorare altri punti di vista, come, ad esempio, quello degli operatori sanitari che si occupano, spesso in condizioni molto difficili, delle interruzioni di gravidanza, prevale su tutto il resto: “Non voglio giustificare alcuni atteggiamenti che mi hanno ferita profondamente, ma sono comunque grata a queste persone che non si sono girate dall’altra parte come ha fatto la mia ginecologa. Che non mi hanno liquidata”, scrive.
Con la stessa lucidità Orsola, affrontando il lutto della propria imminente perdita – “Questo bambino non è mai nato ma non è come se non fosse mai esistito”, osserva -, abbraccia e racconta il rapporto con il padre scomparso, con il marito e con la madre. Ne emerge un affresco dove la potenza della verità, la “voce” dell’autore, travalica l’autobiografia per approdare sul terreno dell’autofiction e rendere la propria storia di giovane madre, di donna moderna e dalla vita apparentemente perfetta che viene sconvolta da un evento inaspettato, universale.